{mosimage}di Enrico Arosio – da L’Espresso
Ha avuto la Coppa America di vela. Avrà il Gran Premio di automobilismo. Per movida, progetti architettonici, arredo urbano, ora vuole insidiare Barcellona. Ma in tanto gigantismo non mancano le critiche. Per esempio si è affidata troppo al virtuosismo di Calatrava, l’eroe locale.
Con il caldo estivo, l’orario migliore è l’alba. Esagerato? Allora tra le 7 e le 8. Passeggiare o, meglio, correre nel parco del Turia è il modo più autentico, perché corporeo, per capire Valencia, terza città di Spagna e capoluogo del Levante. E allora sveglia. Traversate aiuole, corridoi di siepi, aranceti, poi un campo da basket, uno da pallavolo, altri prati, una piccola pista di atletica, qui una pergola là un roseto, un baretto, una limonaia, un parcheggio di bici, una piazzetta, una fontana, e così via. Scartate all’ombra lungo i vialetti laterali e siete sotto le mura. Il rumore del traffico giunge attutito, vi sentite un privilegiato in questo largo greto di fiume messo a verde, così ludico e rilassante. E se sotto qualche ponte assistete al risveglio dei senzatetto, qualche nomade, qualche clochard, molti lavoratori marocchini in nero, stagionali o disoccupati perché il boom dell’edilizia s’è sgonfiato anche nell’ambiziosa Spagna, non basterà certo a rovinarvi la giornata.
Abbiamo corso in un fiume prosciugato. Il Turia è l’arteria verde che innerva la nuova Valencia, finalmente indirizzata verso il mare. Il rio Turia, in epoca franchista, dopo una serie di straripamenti era stato deviato a sud della città. E molti anni dopo, trasformato in giardino pubblico a forma di serpentone, su progetto del catalano Ricardo Bofill (uno dei più durevoli e sensati di questo architetto etichettato postmoderno). È ribassato di una decina di metri rispetto all’asse dei vialoni che lo costeggiano, collegati da ponti. Lungo il Turia si è letteralmente ridefinita la città. Un’idea urbanistica forte, tra le più originali d’Europa.
Siete sorpresi che un reportage dalla nuova Valencia cominci da un’opera vecchia, pensata negli anni ’80? Consolatevi. Di Valencia di recente si è parlato più per la Coppa America e per le architetture roboanti di Santiago Calatrava: ma chi ha detto che ciò che più buca lo schermo sia davvero il meglio? Valencia non è solo Calatrava. L’ingegnere-architetto residente a Zurigo è nato qui. È il local hero. Ma che la sua Città delle arti e delle scienze sia il capolavoro che tv e tour operator sostengono, è opinabile. Oggi la Ciudad de las Artes che si estende lungo i Giardini del Turia in direzione del litorale è composta di cinque elementi: il Palazzo delle Arti, epitome di quelle forme biomorfe, o insettoni corazzati, che hanno fatto la fortuna mediatica del nostro eroe; il Ponte di Monolivet; l’Hemisferic, col suo cinema Imax; il Museo delle Scienze; e infine l’Umbracle, una lunghissima pergola in metallo reticolare che parrebbe la rilettura da XXI secolo del vecchio Umbracle di Barcellona, la serra costruita per l’Expo del 1888.
La Ciudad de las Artes è diventata l’attrazione principale, ed è logico: musica, arti, cinema, tecnologie, tempo libero. Ha rafforzato la ricucitura tra la città e il mare. Ma le forme di Calatrava già oggi, al viaggiatore esperto, possono apparire esibizioniste, venate di megalomania. Il bianco abbacinante del cemento è già striato di sporco e di salsedine. Il linguaggio espressionista divide naturaliter: qui gli incantati, là gli irritati. Con tutta la simpatia per il dinamismo ispanico, non è mai facile gestire opere monumentali che sopravvivano alle mode. Anche Calatravopoli soffre di quell”edifice complex’ che il critico inglese Deyan Sudjic diagnostica alle amministrazioni ambiziose che puntano a sfruttare l’architettura come brand identitario e volano economico nella competizione tra città.
Se proseguite verso il mare arrivate al veccho porto, che è stato trasformato per l’America’s Cup 2007 nel teatro di una splendida competizione velica. Anche qui la sensazione è ambigua. Tanto allegra, impavesata di bandiere, tintinnante di sartie era l’atmosfera nell’estate appassionata di Alinghi e Luna Rossa, tanto oggi il bacino è immalinconito, le sedi vuote dei team devitalizzate. Compreso il padiglione più originale, quello di Luna Rossa realizzato da Renzo Piano assemblando vecchie vele in fibra di carbonio. Gli edifici dei consorzi saranno riciclati come hangar funzionali al circuito urbano del Gran premio d’Europa di Formula 1 che si terrà il 24 agosto coinvolgendo l’area del porto. L’attesa è grande, Bernie Ecclestone ha i dollari negli occhi come zio Paperone: chissà che Valencia non diventi una sfida alla blasonata Montecarlo. Ma il resto dell’anno?
La cosa migliore del Port America’s Cup è senz’altro il Veles e Vents, l’edificio progettato dall’inglese David Chipperfield con B720 Arquitectos. Il Veles e Vents domina l’imbocco del bacino, dal quale l’anno scorso pubblico e autorità salutavano l’uscita e il rientro delle barche in un tripudio di sirene, colori, bikini e birre. Quei quattro livelli di terrazze in vetro e acciaio bianco, che culminano in un ampio belvedere sul Mediterraneo sono uno splendido gesto neorazionalista, contemporaneo senza essere violento, leggero ma non effimero, e l’auspicio è che la salsedine non gli faccia troppo danno.
Valencia ha profittato dei riflettori del 2007 anche per restaurare, riordinare, ripulire la Ciutat Vella. La città vecchia è una fascinosa stratificazione: la Reconquista aragonese dopo l’occupazione araba (la cacciata dei Mori è del 1629); lo sfarzo barocco di Plaza de la Virgen; la Seu, la cattedrale con la torre ottagonale, che comincia in gotico e sboccia nella facciata del 1703. Valencia antica ha qualcosa di Napoli, vicoli tortuosi, colori di terra, persiane scrostate, chiacchericcio e degrado, giacché è tutt’altro che risanata. Ma le viuzze tra la Seu e il Mercado, come la calle Caballeros, sono rifiorite con un’invasione di tapas bar e ristoranti, caffé all’aperto e locali lounge: ‘vivir sin dormir’, imitare le insonnie della sorella maggiore Barcellona.
La movida valenciana si è poi trasferita con successo nei viali alberati dell’Eixample, i quartieri ottocenteschi a ridosso della città vecchia, dove ci sono i ristoranti e i disco-bar di fascia alta. La febbre immobiliare ha prodotto 90 alberghi, di cui ben sette a 5 stelle, non poco per 800 mila abitanti (e tante camere vuote d’inverno). Tra questi l’elegante Westin Valencia, in un edificio modernista del 1917, e l’Hilton in acciaio realizzato da Norman Foster, con 29 piani la torre più alta della città, che ospita un bar con una selezione abnorme di whisky al malto. A sud è in cantiere il quartiere Sociopolis, residenze e servizi, dove lavorano studi di alta qualità come Toyo Ito, Muller Arquitectos e gli olandesi Mvrdv. All’orizzonte, l’Alta velocità ferroviaria.
Grande attesa, infine, per il Nou Mestalla, il nuovo stadio che sostituirà il vecchio Mestalla dal 2009. Sorge a nord-ovest del centro, è costato uno sproposito (300 milioni di euro), conterrà 75 mila spettatori su tre livelli di tribune convertibili, per ospitare, oltre al calcio, l’atletica. Bersagliato da polemiche sui costi e la capienza, che appare sproporzionata pur in un campionato di livello come la Liga, è però un notevole oggetto architettonico, firmato da Arup Sport con Reid Fenwick Associates. La carrozzeria esterna è in piastre di alluminio perforato il cui ordine rimanda ai vari quartieri cittadini, attraversate da un ampio taglio orizzontale. Omaggio al fiume Turia, naturalmente. Come si diceva all’inizio: è il fiume divenuto parco, non la boria di Calatrava, l’idea profonda, il flusso vitale di Valencia.