VG: Di sicuro è più difficile trovare occasioni legate a rimanenze nei piazzali dei cantieri, fatto che ha drogato anche tutte le quotazioni dell’usato. Si trovano ancora buone occasioni sugli usati, ma i valori si stanno più o meno normalizzando; certo, sempre più bassi rispetto agli anni d’oro, ma più normali e livellati. La crescita sostenibile di cui parli è in realtà più legata ai cantieri stessi i quali, rendendosi conto che i numeri del passato non torneranno, si sono ristrutturati o si stanno attrezzando per immettere sul mercato numeri che lo stesso possa recepire.
SB: Secondo te durante la crisi il mercato della vela ha tentato di fare selezione sui prodotti e sulla qualità oppure la situazione era troppo generalizzata per identificare delle nicchie in grado di resistere alla crisi?
VG: La crisi ha colpito tutti, ma non nella stessa misura. Ne è uscito meglio chi ha saputo dare continuità nel prodotto, sia come identità, sia per la qualità. Diciamo che, secondo me, ne sono usciti meglio i brand concreti, con una storia e una tradizione alle spalle (vedi alcuni dei nordici), e chi ha avuto il coraggio – e la forza – di presentare modelli nuovi e innovativi, pur sapendo che la crisi avrebbe potuto bruciarli; in questo secondo aspetto, nessuno è stato più forte dei francesi. Però la selezione da parte degli acquirenti più di tanto non c’è stata, nel senso che, a mio parere, quando il mercato ripartirà i clienti continueranno a comprare come prima. Sono i cantieri che, per non soccombere, hanno cercato, chi più chi meno, di investire su un generale miglioramento della qualità – vedi gli ultimi Bavaria, per me ben distanti da quelli precedenti.
SB: Spesso si è parlato del fatto che le aziende italiane devono internazionalizzarsi per andare alla ricerca di nuovi mercati. Pensi che ci sia la maturità/professionalità giusta da parte dei cantieri italiani per affrontare la concorrenza estera?
VG: Non quanto mi piacerebbe. Di fondo abbiamo ottimi prodotti che, però, facciamo fatica a far valere all’estero, proprio per la mancanza di una vera percezione del mercato globale. Ovviamente sto generalizzando, non è per tutti allo stesso modo; ma la vela made in Italy è un prodotto forte per design e fantasia ma resta percepito come di nicchia, almeno se paragonato alla potenza di fuoco del settore motore. Questo, intendiamoci, è dovuto anche a una esterofilia tipica dei clienti vela italiani. Certo è duro battersi con qualità e storia di alcuni cantieri nordici, o con la convenienza dei grandi gruppi, ma non dimentichiamoci che nomi come Sangermani, Costaguta o Baglietto hanno fatto la storia dello yachting mondiale.
SB: Da conoscitore del settore come hai vissuto l’acquisto da parte di Bavaria dei Cantieri del Pardo? Pensi sia una sconfitta per il design italiano o una vittoria per l’efficienza tedesca?
VG: Se le cose andranno come promesso dai tedeschi, cioè che ognuno mantiene – anzi sviluppa ed enfatizza – la propria identità, potrebbe dare ottimi risultati. In fondo le economie di scala che possono nascere già solo nelle trattative coi fornitori non possono fare che del bene. E questo, magari, concorrerà a far crescere anche tutto il comparto vela italiano.
SB: Secondo te con quali armi il mondo della nautica può affrontare il rilancio nel 2011?
VG: Non è facile individuare le armi giuste in un mercato in continua evoluzione; ma volendo provare ad essere più concreti, posso dirti che un passo verso il rilancio potrebbe essere intrapreso forse cercando di dimostrare più serietà, facendo selezione sulla professionalità dei dealer, organizzando reti di strutture per tutto l’intorno delle barche (postvendita, assistenza, vendita accessori, equipaggi…) che siano chiare e affidabili e cercando di stabilizzare tariffe e servizi dei porti, uno dei veri freni allo sviluppo della nautica italiana, intesa come attività ricreativa per tutti.
SB: Ci sarà un’evoluzione da parte dell’utenza? Quali sono le nuove esigenze del mercato della vela?
VG: Credo che il mercato della vela sia sempre stato più maturo e autocosciente rispetto al resto dei comparti leisure. Noto però che l’acquisto delle barche a vela si sta spogliando di ogni aspetto “del mettersi in mostra” e si sta sempre più indirizzando verso quello che realmente serve. Aspetto principale figlio di questo indirizzo è il “downsizing”, cioè la tendenza a ridurre misure e impegno cercando di concentrarsi su ciò di cui si ha bisogno, quello che basta. Oggi vanno forte le barche più piccole, i 35-38 rispetto ai 41-43, per fare un esempio. E, addirittura, anche nel mondo dei maxi, se un 66 offre le stesse comodità di un 80, ma fa risparmiare su un sacco di cose, non ultimo l’equipaggio, allora perché no?
SB: Oggi per tornare ad essere ottimisti siamo sulla strada giusta o c’è ancora qualcosa da fare?
VG: C’è molto da fare, veramente. Secondo me dobbiamo partire dalla percezione che il resto del mondo ha di noi. Basta con la barca come simbolo di estrema ricchezza e, quindi, malaffare. Troppo spesso i media continuano ad associare la nautica all’evasione, le barche alle truffe. Questo in generale: a maggior ragione se, poi, facciamo le dovute e obbligatorie distinzioni. La nautica, nel suo complesso, in realtà non esiste. Esistono vari comparti, molto diversi tra loro, anche se solcano gli stessi mari e usano le stesse strutture; ma lo fanno in modo e con un atteggiamento molto diversi. La vela è uno di questi. Forse il più pulito, il più puro, quello col maggior rispetto verso cose e persone? Non lo so. Ma di sicuro non siamo tutti uguali e, quindi, non possiamo essere trattati nello stesso modo. Se cominciassimo davvero a far capire cos’è la vela, quanto istruttiva possa essere, quanto ecologica per necessità prima che per fede, quanto formativa in migliaia di aspetti di vita… questi argomenti da soli meriterebbero un capitolo a parte. Mi basta però una semplice, stupida, riflessione: quando siete all’ancora, a godervi la quintessenza del piacere legato alla quiete e alla natura, se passa una barca a vela, ve ne accorgete? E se passa un motoscafo?