Don Lorenzo guarda dritto davanti a sé dal portone della sua chiesa, intitolata ai santi Lorenzo e Mamiliano. Solo poco più di cento metri lo separano dal molo dove attraccano i traghetti. Altri 200 metri, non di più, in linea d’aria e si vede distintamente la Concordia piegata su se stessa. Sull’altare il sacerdote ha sistemato un giubbotto di salvataggio, una fune, un telo antivento, un caschetto di protezione. «Li ho messi lè perché tutti ricordino che cosa è successo – spiega quest’omone pratico dai modi spicci e dal largo sorriso che si distende su una faccia incorniciata da una barba incolta -. L’ho anche spiegato durante la messa. Quando tutto sarà finito vorrei sistemarli in una teca. Perché dopo questo naufragio nulla qui sarà come prima».
Da buon pastore di anime, Don Lorenzo cerca di trarre qualche insegnamento positivo per il suo gregge. Ti racconta con semplicità di come è stato svegliato allo sbarco dei primi naufraghi. Di come semplicemente abbia aperto le porte della chiesa per stiparne il più possibile («Prima le donne e i bambini, come è ovvio»). E di come, piano piano, man mano che la notizia passava di bocca in bocca e di casa in casa fra i seicento residenti dell’isola, gli abitanti del Giglio si davano da fare «per aiutare quella povera gente, bagnata e infreddolita, più disorientata che impaurita. Erano soprattutto stranieri. Mi interrogavano: dove siamo? Al Giglio, dicevo io. E loro neanche chiedevano dov’è, ma piuttosto: che cosa è».
In chiesa don Lorenzo ne ha sistemati oltre 400. Qualcuno sulle poche panche, la maggioranza in terra. La gente del posto ha aperto le proprie case, i negozi, la scuola, gli alberghi disponibili. La farmacia è stata presa d’assalto e in breve tempo letteralmente svuotata. Un’invasione fatta di un’umanità dolente di 4 mila persone, bisognose di tutto. Poi sono arrivati i rinforzi delle cosiddette istituzioni, si sono allestiti i centri di accoglienza. «Ma quello che mi ha fatto impressione – racconta il sacerdote – è vedere i bambini del Giglio aiutare i propri genitori a distribuire bottiglie d’acqua, le merendine e i dolci trovati in casa, qualche bevanda calda, un po’ di caffè. Credo che abbiano potuto capire cosa sia la sofferenza e cosa significhi aiutare il prossimo più di cento lezioni di catechismo che io avrei potuto propinare loro».
In Paese, lungo la strada che affianca la banchina, non si parla d’altro che della sventurata manovra del comandante Francesco Schettino. Lo sanno tutti, qui, che quelli della Costa Crociere quando passano davanti al Giglio si sentono in dovere di salutare il Comandante Palombo. Un vecchio lupo di mare che si è ritirato in pensione nella sua isola dopo aver allevato generazioni di comandanti della compagnia di navigazione genovese. Basta sentire i Ferraro del caffè, la Elsa del minimarket, la Marilena dell’alimentari, la Rosa del bar dove servono grappini e cappuccini per scaldarsi dal freddo tagliente di gennaio. O entrare per un piatto caldo da Paloma, «Cucina spontanea con giardino interno». Tutti ti raccontano che le navi da crociera («Mica solo Costa, tutte»), di giorno e di notte, quando passano davanti al Giglio suonano la sirena in segno di saluto e offrono ai passeggeri la splendida vista sull’isola e il suo paesino incastonato fra il mare e la collina.
Qualcuna più distante, qualche altra più vicina alla costa. Ma, diomio, mai nessuno era arrivato cosè fin quasi a riva. Italo Arienti, marinaio timoniere del traghetto Isola del Giglio, è stato uno dei primi ad arrivare con la sua unità in soccorso della Concordia: «In due viaggi abbiamo raccolto 600 persone». Ti fa vedere dove sono gli scogli delle «Scole», quasi attaccati a terra. «Ancora non ci credo che sia arrivato cosè vicino». Il direttore di macchina dello stesso traghetto, Roberto Coccoluto, ha una sequenza fotografica col telefonino dove si vedono le manovre fatte dalla nave, tutte sotto costa.
Il comandante Angelo ha davanti a sé la carta nautica dove tutti gli scogli, «Scole» comprese, sono chiaramente dettagliati. Proprio Angelo commenta amaro la manovra: «Finché va bene sei bravo, quando sbagli è un casino».
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