Economia

Sergio Tacchini dai trionfi oceanici alla chiusura

Da LinkiestaIeri italiana, oggi cinese, domani chissà. L’epopea della Sergio Tacchini è un libro di storia gonfio di attualità, crisi e rimpianti. L’azienda ambasciatrice del Made in Italy nel tennis (e dello sport) ha vestito i vari Jimmy Connors, John Mc Enroe, Martina Navratilova, Pete Sampras, Martina Hingis, Adriano Panatta, Ayrton Senna, Marc Girardelli, Dino Meneghin, Costantino Rocca. Da non dimenticare i trionfi del trimarano Sergio Tacchini di Karine Facounnier che nel 2005 vinse la transatlantica Québec – Saint-Malo. In quell’epoca il trimarano Sergio Tacchini poteva contare di competizioni di alto livello in oceano contro Grouprama, Giovanni Soldini, su Tim Progetto Italia. Dopo una gloriosa cavalcata imprenditoriale, con i campioni al servizio del brand e la rivoluzione del multicolor che spodestò il bianco, nel 2007 l’ex tennista passò la mano sotto il peso dei debiti: il magnate Billy Ngok con la sua Hembly International, quotata alla Borsa di Hong Kong, si aggiudicava la T cerchiata per 42 milioni di dollari. Scrivendo un pezzo di storia, visto che quello di Tacchini fu uno dei primi casi di imprenditori cinesi che mettevano le mani su un’azienda italiana. Lo stupore e lo scetticismo per la bandiera di Pechino piantata sul distretto tessile novarese lasciavano il posto agli annunci: ecco la “Sergio Tacchini International”. La nuova proprietà prometteva la rinascita con lo sbarco nel mercato orientale, investimenti e nuova linfa al brand. Negli anni però sono arrivati la riduzione del personale, la contrazione sul mercato, gli inciampi coi testimonial e la chiusura dei negozi monomarca per lasciare il passo a una brand company.

 

Da Linkiesta del 26 giugno 2014 – Così torna all’arrembaggio la famiglia Tacchini, papà Sergio e il figlio Alessandro. «Negli ultimi tre anni – dichiarano – abbiamo fatto varie proposte al gruppo, ma senza arrivare ad una conclusione». Ad aprile la formalizzazione dell’offerta con la proposta di affitto di ramo d’azienda funzionale all’acquisto del marchio, a fine maggio la conferenza stampa col sindaco di Novara. «Parliamo di 5 milioni, più un pacchetto di altre risorse che investiremo per il rilancio. Sappiamo che la nostra offerta è migliore rispetto ai contratti in essere con la Wintex. Il marchio è valutato dagli esperti 2,3 milioni di euro». I Tacchini presentano un piano industriale per riportare in auge l’ex gioiello di famiglia: «Oggi il marchio, che generava un fatturato di circa 100 milioni di euro, è quasi sparito dal mercato». A onor di cronaca l’ultimo bilancio pubblicato dalla Sergio Tacchini International è del 2012, in cui si evince una perdita d’esercizio pari a 17 milioni di euro e un patrimonio netto negativo per 5 milioni

«Siamo ancora in gara – ha dichiarato ieri Soldini nel suo consueto collegamento telefonico – questa regata resta una tra le più appassionanti. Stiamo combattendo dopo aver attraversato un oceano in un fazzoletto di pochissime miglia». Nelle intenzioni della famiglia Tacchini bisogna riportare il coordinamento della produzione a Novara, dove ebbe inizio l’avventura ST. Il piano prevede trenta nuovi negozi, sponsorizzazioni, rilancio del marchio nel tennis, nello sci e nel tempo libero. Sarebbe la favola bella del tennista che si riappropria del suo nome e dell’azienda, «un’operazione di tipo economico e affettivo». Ma la proprietà cinese dice no. «Il marchio è stato affittato fino al 2017 alla Wintex – spiega il gruppo in una nota –  la quale corrisponde regolarmente il canone. Stiamo elaborando un piano di ristrutturazione che ha come finalità il risanamento delle perdite provenienti dai periodi precedenti e il rilancio commerciale del marchio». Arrivederci e grazie? Vale la pena fare un passo indietro.


La Sergio Tacchini International, titolare del marchio, è in liquidazione. Naviga tra concordati, creditori in attesa e lavoratori in esubero. La proprietà ha affittato il brand e i contratti di licenza alla Wintex Italia, secondo alcuni emanazione dello stesso gruppo orientale, che ha spostato sede e show-room Tacchini a Milano assorbendo una decina di dipendenti del “vecchio” gruppo. «Il canone di affitto annuale – spiegano dalle retrovie dell’azienda – è pari a un ventitreesimo di quello che i contratti di licenza garantiscono in termini di royalties minime, dunque un vero affare». Linkiesta ha potuto visionare il contratto appurando che il canone di affitto ammonta a 150.000 euro annui, soldi pagati per avere in mano la parte tuttora redditizia dell’azienda. La Tacchini a trazione cinese è infatti una brand company, gestisce le licenze affidate a vari soggetti nel mondo. Prosciugato l’apparato produttivo e distributivo, progressivamente sono stati chiusi tutti i negozi monomarca. «È stato fatto uno spezzatino di tutto – racconta un delegato sindacale – se prima usavamo le licenze per profumi e occhiali, oggi la Tacchini ha trasformato in licenze anche il core business dell’azienda, cioè l’abbigliamento».

Nella nuova sede di via Savona a Milano c’è anche l’ufficio di Cristina Clerici, direttrice della comunicazione di Sergio Tacchini. «Il brand non è scomparso, anzi stiamo facendo grandi passi» dichiara a Linkiesta. «Lavoriamo coi licenziatari in tutto il mondo e stiamo operando affinché il marchio non scompaia, ma perché si espanda. La nostra non è una fase di transizione, abbiamo una strategia precisa di promozione e sviluppo». A Milano i dipendenti sono una decina. Gli altri restano in cassa integrazione o sono finiti in mobilità soprattutto nel novarese, dove la storia di Tacchini ha avuto inizio prima con la sede di Caltignaga e poi con lo stabilimento di Bellinzago. Qui fino a qualche anno fa c’era il quartier generale del brand in cui si costruiva il mondo Tacchini: collezioni, marketing, amministrazione e una parte della produzione (già delocalizzata dall’ex tennista). continua a leggere su Linkiesta

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